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Credo che il disagio psicologico da Coronavirus colpisce e colpirà in modo peggiore alcune categorie della popolazione che non sono solo quelle più deboli dal punto di vista economico e psicologico, ma anche quelle che hanno fatto del lavoro e del tempo libero strutturato come un lavoro l’unico modus vivendi. Questo è valido soprattutto nella realtà milanese, in realtà metropolitane simili o in persone che hanno degli stili di vita organizzati rigidamente, in cui nessun momento viene lasciato al caso, ma tutto è incasellato in agenda. Ora siamo di fronte ad una destrutturazione del tempo tamponata dalle imitazioni virtuali di una routine giornaliera (meno male che ci sono almeno queste).

Tutto è lasciato al caso, non solo le riunioni o le vacanze, ma anche la vita. In questi giorni ho letto della possibilità di misurare lo stress e le capacità di resistenza al lockdown. Credo che per i milanesi e per le persone con stili di vita simili il lockdown si stia rivelando molto più duro che per altri, escludendo le persone che hanno subìto dei lutti vicini, ma quello è un dolore universale, uguale per tutti, anche se il modo lo sta rivelando ancora più atroce.

Si possono salvare quelli che hanno trasformato il tempo vuoto in un’occasione per reimpostare la propria vita con dei ritmi interni diversi, che hanno valorizzato le relazioni più importanti e hanno saputo godere di piccole cose come una telefonata di un amico o rapporti di buon vicinato. Oppure quelli che hanno già vissuto la malattia in cui il tempo fermo è all’ordine del giorno e già solo il fatto di “esistere” basta alla vita. Ci sarebbe bisogno di una data certa anche se molto lontana di riapertura al mondo invece di un continuo rivedere perché l’incertezza e la confusione logorano più della negazione.

Irene Muller